giovedì 17 dicembre 2009

Turbak - Seconda Parte

La seconda parte del racconto Turbak, che per molti era già finito...


Non ho mai tradito mia moglie.
O meglio, è successo solo una volta in tanti anni. Ed è stato tanto il senso di colpa da aver rimosso quella storia.
Erano i primi giorni della malattia. Vivevo spossato da tanta rabbia e veleno.
Arrivò dalla città la sorella più giovane di Marta per conoscere la situazione. "La Signora", come l'avevamo simpaticamente ribattezzata.
C'era tra le quattro sorelle un affetto penso smisurato, ma anche la paura di dimostrarlo. Si faticava molto quando erano tutte presenti, tra silenzi, sbuffi e ripicche.
Ma la sera quando dopo cena calava il sole e si rimaneva tutti seduti a sentir musica o a vedere qualche film succedeva qualcosa di magico. Era come se una noce si richiudesse e dentro si accendesse una luce. Lo vedevo dai loro occhi. Era come se tornassero bambine. C'era la gioia silenziosa, c'era l'eccitazione di far tardi, c'era l'armonia nel senso più puro del termine.
Ne avevo parlato una volta con Marta, ma lei non mi aveva risposto. Aveva solo abbassato lo sguardo e sorriso. Forse non sapevo tutto di loro.
"La Signora" si offrì di rimanere un paio di giorni. Mia moglie era stanca e debole. Le medicine finivano di togliere forza a quel corpo minuto e si coricava presto la sera.
Seduto sulla panca del giardino, fissavo come sempre l'erba crescere libera da tre settimane.
Con la sigaretta in una mano e un bicchiere di vino nell'altra Emma mi raggiunse e si sedette sul pavimento di legno vicino ai miei piedi e con le spalle appoggiate alle mie gambe. Il contatto fu fatale.
La mattina successiva sembrò lasciare a me il peso del rimorso.
Non ne abbiamo mai parlato, ne tra noi uno sguardo ha mai stabilito la verità.
Ero io che avevo bisogno di lei o lei che aveva bisogno di me?
Per come mi sentivo dopo, entrambe le domande erano sbagliate.

Ricordo i primi tempi. Chissà perché i ricordi si fissano sempre sui primi tempi. E anche le rivendicazioni.
Marta mi aspettava sveglia quando stavo in cantina sino a tardi per suonare il sax sui pochi dischi che mi erano rimasti.
Poi un giorno decisi che non avrei più suonato. Presi quello che oramai per me era diventato "il tubo" , lo rinchiusi nella custodia in pelle marrone e lo portai in città al monte dei pegni, ben sapendo che non lo avrei riscattato.
Trattai con l'impiegato come mai avevo fatto in tanti anni di commercio. Presi il denaro, lasciai la ricevuta sul bancone, a conferma della mia sconfitta, con lo sfinito impiegato che mi richiamava.
Tornando a casa, in treno, piansi dietro un paio di occhiali scuri.
Qualcuno mi guardava. Tolsi dalla tasca della giacca una vecchia busta listata di nero, quelle che si danno in occasione dei funerali. Con quella nelle mani ero più tranquillo, avevo una scusa, un motivo per non essere giudicato, al massimo commiserato.

"Papà..."
Mi svegliai, girando piano la testa di lato.
Dal mio punto vedevo solo le scarpe nere e lucide. Non riconobbi subito la voce e così soffocai l'urlo con il nome di uno dei miei due ragazzi, temendo di sbagliare. Mi tirai su dalla panca e tesi le braccia verso di lui. Ma lui rimase fermo.
Ancora una volta, come da bambino. Ancora una volta come quando si arrabbiava con me per qualche ingiustizia subita.
Guardai i suoi occhi. Tristi più dei miei ..... pensai. Fui tentato di voltarmi e andarmene dentro, chiudendomi la porta e la sua figura alle spalle. Pensai anche che sua madre non sarebbe stata contenta.
Mi accorsi che ancora una volta staccavo la figura di sua madre da quella di mia moglie. Come se fosse insopportabile pensarle sovrapposte.
Ma non mi voltai, cercando il suo sguardo di bambino, quello di un tempo lontano.
"Mamma è morta..." dissi.
Lui lasciò cadere la valigia e fece un passo verso di me. Fu una liberazione, credo per entrambi. Gli occhi che si bagnavano e i singhiozzi che rompevano il silenzi della veranda.
Misi un braccio sulle sue spalle. Mi accorsi del tempo passato dal suo fisico robusto. Da piccolo era gracile e potevo sollevarlo con una mano.
Le sue lacrime avevano lo stesso odore di quelle della madre. Un odore che conoscevo bene, anche troppo bene.
"Fa freddo ormai, entriamo dentro".

4 commenti:

  1. Sempre più triste. ti diverti a farci piangere.

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  2. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

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  3. Scrivi bene, cose della vita, ma cavolo... che triste.
    Sei un tristone!

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  4. letto
    non lho trovato triste, dai.
    ha una armonia molto bella nelle parole
    un tempo pacato.
    sìsì
    piaciuto.

    Ciao
    R.


    (correggi battitura "gioia")

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