venerdì 22 gennaio 2010

Trentacinqueanni fa il cinema in Super8... Esperimenti o Follie?




Non ricordo come sia cominciata tutta quella storia. Ma so che oggi, a distanza di più di trentanni, nelle cene tra vecchi amici, vien fuori sempre qualche racconto, aneddoto o flash su quel periodo.
E ogni anno che passa porta nuovi colori al ricordo, facendo sempre più leggendaria e unica quell'epoca di sperimentazione e condivisione.
Ricordo anche che io non volevo fare l'attore, volevo solo partecipare, aiutare, dare una mano.
Qualche anno dopo, mi sarei infilato in una scuola d'Arte Drammatica a studiare.
Ma questa è un'altra storia.

Partecipai alla realizzazione di un film in Super8, l'unico supporto possibile per una "produzione"
squattrinata e perennemente alla ricerca di una Cinquecento lire di benzina.
Si trattava di una trasposizione della fiaba "Salta nel mio sacco!" da "Fiabe Italiane" di Italo Calvino.

Una domenica mattina il regista, e mente del progetto, mi disse:
"Mi serve un giovane bello, con il tuo fisico magro, per il giocatore del casinò che si suicida."
Io dissi che eravamo tutti magri e belli, non c'era bisogno di me. Ma lui insisteva, e alla fine, sfinito, accettai.
Pino, il regista, aveva una dote che tutti gli riconoscevano. Riusciva a convincere, coinvolgere tutti quelli che gli capitavano a tiro. Nessuno ha mai capito come, ma lui era terribile. Non avevi scampo, se decideva che dovevi partecipare al suo lavoro.
E quella mattina andò così.
Mi guidò lungo la scala che portava al piano superiore del casinò, e mi spiegò che il suicida si pugnalava sul pianerottolo. Voleva che il suicida fosse inquadrato dopo la coltellata, steso a terra.
Ma come?
"In maniera naturale" , disse.
"Devi scivolare, il tuo corpo si deve accasciare, come senza vita improvvisamente..."
Una bella spiegazione. Provai un paio di volte, ma il movimento non era naturale e la postura che ne risultava anche. Mi fece vedere come fare.
Allora riprovai, ancora un paio di volte.
Alla terza, sfinito e nervoso, mi lascia cadere con manifestata insofferenza. Ma nel cadere la schiena picchiò contro il basamento di una mezza colonna che adornava il pianerottolo. Quello spigolo penetrò nel mio costato lasciandomi senza fiato e incapace di muovermi.





Sentii Pino urlare.
"Bravo, perfetto, te lo dicevo io... bravo, non muoverti..."
Io non avrei potuto. Ero senza fiato, quasi certo di essermi spaccato qualcosa.
Pino saltellava intorno, mi mise il coltello accanto.
"Bisogna far vedere il sangue che esce..."
Con gli occhi lo seguivo nel suo lavoro. Tirò fuori dalla busta di plastica un barattolo di vetro.
"Sugo al pomodoro. Rosso come il sangue."
Gli feci notare con un filo di voce che giravamo in bianco e nero.
"Non c'entra nulla!" fu la risposta.
Aprì il barattolo, lo avvicinò alla camicia e cominciò a versarlo. Il sugo era ghiacciato. Macchiò la camicia, ma ne versò ancora. Dopo un paio di minuti lo sentii passare la stoffa e colare sulla pelle, ghiacciato e unto. Una sensazione sgradevole, ma che non potevo fermare. Ero morto, in fondo.
Girammo la scena, con altri giocatori che guardavano quel povero giovane suicida e il protagonista che arrivava per giocare anche lui al piano superiore.
Attimi interminabili di dolore e freddo.
Poi "Ok, fatto, si cambia".
Mi rialzai, dolorante e unto.
Ancora una volta convinto che il cinema fosse finzione, ma il dolore che provoca è reale. Sure!


mercoledì 20 gennaio 2010

Turbak, la terza parte...

"Riparto domani sera..."
"Si. Lo so."
E abbassai lo sguardo per non tradire la rabbia per quel figlio che forse non avrei mai più rivisto.
"Mio fratello non è ancora arrivato?"
"Non so dove sia, non ho potuto avvisarlo."
"Arriverà. Mamma lo ha fatto. Arriverà."
Cosi capii che Marta aveva avvisato i suoi figli che stava per morire. E loro, perché non erano corsi prima che morisse? Che razza di anima hanno questi figli tuoi, Marta?
"Mamma ci ha fatto giurare di non venire prima. Non voleva..."
Come se mi avesse letto nel pensiero il mio ragazzo aveva risposto.
E tu che razza di madre sei, che muori senza vedere i tuoi figli?
La testa stava per scoppiare.
Misi sul fuoco il caffè. Sentii la voce di Marta, mescolata con la sua, dire mentre si sedeva: "Attento agli schizzi!"
Lo guardai con occhi curiosi, questa volta. Era uno dei tormenti di Marta, quello degli schizzi della vecchia caffettiera italiana.
"Mamma voleva che rimanessi solo tu con lei."
Mentre beveva il suo caffè, non alzò mai gli occhi dalla tazza.
Poi sfilò dalla tasca una busta. Riconobbi la scrittura di Marta nello spazio dell'indirizzo. La aprì e sentii mancare il respiro.
C'era una foto, una mia vecchia foto. Stavo seduto in veranda, con il sassofono tra le mani e sorridevo. Erano due condizioni anche solo difficili da ricordare, adesso.
Sul retro della foto Marta aveva scritto: "Tuo padre ha bisogno di te..."

Mi ricordai del sassofono e del monte dei pegni.
Il denaro era servito per qualche riparazione in casa, qualche piccolo acquisto. Cambiai anche due vetri nel negozio, e il "tubo" sparì. Marta non lo seppe che parecchio tempo dopo.
La sera scendevo come sempre in cantina. Cominciai a restar seduto a fissare il muro. A volte mi appisolavo sulla vecchia poltrona. Stringevo tra le dita la pipa di mio nonno.
Una pipa che non avevo mai fumato e di un nonno che non avevo mai conosciuto. L'avevo trovata in un cassetto, quando avevamo preso questa casa. Sapevo che questa casa era stata a lungo disabitata, appartenuta a due anziani del paese.
Così considerai quella casa come quella dei miei nonni. Lo feci mentre radunavo le loro cose dai cassetti e dagli armadi. Cose che i loro figli avevano lasciato, abbandonato.
Mi convinsi di appartenere a quella famiglia mai conosciuta.
Parecchi anni dopo, portai tutto quello che avevo raccolto e conservato in piccole scatole di cartone bianco, al centro del cortile per un falò. L'ennesimo taglio con un passato che comunque non esisteva.
La cantina era il mio rifugio, ma anche l'anticamera della fine.
A poco a poco cominciai a togliere tutte le cose mi identificavano.
Dopo il "tubo", mi liberai delle stampe, dei dischi, degli spartiti. I libri resistevano. Così feci un elenco e a gruppi di venti li chiudevo in scatole su cui scrivevo i titoli e gli autori. Li accatastai dietro la porta e sono ancora lì. Ancora, dopo tanti anni e tanta umidità. Speravo in cuor mio che almeno uno dei miei figli sarebbe tornato, magari dopo la mia morte, e ne avrebbe preso possesso. E con loro, un pezzo di me. Con tutta l'umidità...

Ma la cantina si svuotava, come la mia anima. Il tempo passava. I figli crescevano, come tutti i bambini.
E per me era una discesa all'inferno, senza tregua e senza patti.
Lei mi guardava spesso di nascosto mentre stavo seduto in giardino. Sentivo i suoi occhi sulla mia figura. Li sentivo cercare il mio sguardo perso oltre quella mezza collina di fronte a casa.
Oltre quella mezza collina c'era il mare. Il mare da dove ero venuto. Marta sapeva che che non me sarei mai più andato, anche se non sopportavo più la mia vita a Turbak.

venerdì 8 gennaio 2010

La miseria è il peggior nemico

La miseria è il peggior nemico.
Hai un bel dire che i soldi non sono tutto nella vita, non danno la felicità.
Stronzate!
Stronzate inventate dai ricchi per tener buoni i poveri. E che, se avevo i soldi stavo qui, di notte con una pala a scavare nella terra umida?
Stronzate!
Scava... scava... che di notte la paga è doppia. Il giorno così posso andare al mercato a scaricare carri di frutta o farina. O a segar legna rischiando dita e mani per la stanchezza che mi fa chiudere gli occhi.
Quattro soldi e a casa, a mangiar patate e zucca.
Poi di nuovo la notte con la pala e la terra umida.
Attento! Presto!
Lo hanno messo stamattina, possiamo farlo solo stanotte o la prossima...
E lui al caldo, in macchina, a fumar buono.
Mica tabacco marcio come il mio.
E mani curate, vestiti che profumano di fresco e scarpe lucide.
La miseria è il peggior nemico.
Povero, ma con dignità!
Stronzate!
Che dignità c'è nella terra umida di questa pala e in questo odor di muschio andato a male e in questi vermi grandi come sigari.
E lui al caldo, in macchina.
Una di queste notti tolgo la terra anche a lui, e riderò frugando nella sua bocca dopo aver aperto la bara.
"Non puoi dirmi di no."
"Devi venire. Mi fido solo di te."
Per forza... sono disperato.
Dove lo trovo uno che paga? E tu, dove lo trovi uno che scava senza far domande.
"Siamo fatti uno per l'altro."
E allora perché io ho le scarpe piene di fango e a lui luccicano anche le suole?
“Non perdere tempo, non si sa mai.”
Cristo, potrò almeno pensare mentre faccio questo schifo di lavoro!
Mica posso pensare quando sego la legna. Lì devo concentrarmi, pensare alla sega circolare, non perdermi nel rumore martellante del suo motore che gira. Spacca il cervello e il cuore.
"Stamattina sono stati due. Doppia paga. Dai, non farti pregare."
La miseria è il peggior nemico.