lunedì 9 novembre 2009

"TURBAK" di Roberto Orsetti

Sono seduto da due ore su questo sasso, e sento il rumore dei miei pensieri e del mare.
Se fossi una bella ragazza avvolta in uno scialle bianco, questo sasso sarebbe uno scoglio misterioso e il mare un compagno di chissà quale malinconia. Invece sono un uomo, di quasi 50 anni e con gli occhi persi nell'orizzonte di questa altra mattina.
Un uomo con due figli non so dove e una donna sotto una coperta di terra e erba da tre giorni. Non ho mai pensato di sopravviverle, non ho mai pensato a giorni come questi.
Non ci ho mai pensato e forse è per questo che sono così irreali e irrimediabilmente reali.
Mia moglie è morta. Occorre dare alle cose il proprio nome, non devo dire "se ne è andata", o altre stupidaggini. Mia moglie è morta. La donna che ha diviso la sua vita con me per trent'anni non è più qui, accanto alla mia ombra. Ha assistito incredula al mio fallimento di uomo, di padre e quant'altro possa appartenere alla categoria della persona.
Ha visto sfumare le nostre ambizioni, i nostri sogni. Ha visto sparire i nostri figli verso terre diverse e più accoglienti. Ha visto la sua fine nelle mie lacrime mentre le stringevo le mani per l'ultima volta.
Quando l'ho conosciuta trent'anni fa era bella come adesso. Piccola e magra, con occhi decisi e innamorati della vita.
Io andavo girando con il mio sassofono sulle navi da crociera, cercando il modo per sfinirmi in fretta, dopo la morte di mio padre. Mia madre ci aveva lasciati qualche anno prima cercando di dare un secondo figlio a mio padre. Lui voleva una famiglia numerosa, ma sfortunatamente mia madre non era nata per quello. Così all'ennesima gravidanza e quando avevo tredici anni il suo fisico non ce la fece più e si lasciò morire dopo aver saputo che mio fratello mi avrebbe lasciato ancora una volta figlio unico.
Mio padre cercò di sopravviverle per amor mio o per dovere nei miei confronti.
Appena preso il diploma di ragioniere mi chiamò e mi parlò credo per la prima volta guardandomi negli occhi. Non scorderò mai quel giorno, quello sguardo e quella voce. Usò un tono che non gli conoscevo.
"Ora sei in grado di badare a te stesso. Io non so se sei un uomo, se lo sarai o se resterai seduto a guardare il tempo. Ma io non posso restare al tuo fianco, tua madre ha bisogno di me. O così mi fa comodo credere."
Avevo trovato un lavoro e perso un padre. Avrei preferito masticare le pietre pur di averlo ancora accanto, ma lui se ne andò pochi mesi dopo mentre ero al lavoro.
Cominciai a odiare quel lavoro che mi aveva tenuto lontano da lui, scaricai sui miei colleghi tutta la rabbia per non essergli stato vicino, e così appena conobbi il signor Vincenzo me ne andai.
Il signor Vincenzo era il mio capo orchestra. Chiamarla orchestra era arduo, visto che eravamo solo cinque, ma lui aveva un valido e valoroso passato da difendere e così tutti quelli che lo conoscevano mostravano rispetto anche per le sue ingenue bugie. Metà dei posti dove diceva di aver suonato era frutto della sua fantasia, ma credergli non costava nulla e lui era così sereno nel sederti accanto che a nessuno sarebbe venuto in mente di contraddirlo.
Accettai subito il ruolo di sassofonista, ma soprattutto di segretario tuttofare. Ero il giovane di turno e mi toccava, comunque contento di lasciare la terra del dolore. In mezzo al mare cosa poteva accadermi?
Non potevamo frequentare i passeggeri, non potevamo avere storie con il personale, dovevamo solo suonare e guardare il mare. Andava benissimo.
Spesso dopo aver suonato, alle quattro o alle cinque del mattino. mi sedevo sul ponte avvolto in mille coperte. Ogni volta era un'alba diversa. Diversa la latitudine, la longitudine, il cielo, le stelle. Forse anche io ero diverso ogni volta. E mi ritrovavo addormentato con gli occhi bagnati, il bisogno di perdersi e ritrovarsi il giorno dopo come sempre infelice.
In una delle poche volte volte che scendevo a terra, per comprare qualche libro o qualche disco di jazz, entrai in un caffè dal nome familiare: "Il posto della luna".
Uno dei rari sussulti, spinsi con timore la porta e trovai posto vicino al bancone. Ordinai del caffè credo e della crostata, poi cominciai a leggere. Avevo quasi timore di alzare gli occhi, di guardarmi intorno. Avevo paura di trovare qualcosa di mio, qualcosa che mi avrebbe inchiodato a quei ricordi che solo la notte accettavo. Era strano, ma io ero già stato in quel posto, o lo avevo immaginato così.
Poi tirai su la testa e la vidi, al tavolo di fronte. Aveva un giornale aperto davanti e una tazza di the in una mano. I capelli legati dietro mettevano in mostra il suo viso, il più bello che avessi mai visto. Dimostrava più anni di me, ma non per il tempo che era passato. Per il suo modo sicuro di muovere le labbra sulla tazza, per le dita sicure che la tenevano, per le gambe nella gonna lunga e blu che intravedevo. Poteva avere mille anni per come riempiva la mia mente. O poteva essere la mia bambina appena nata...
Le sorrisi quando volse lo sguardo verso di me. Un sorriso che lei ricambiò, con cortesia tipica delle persone serene. Fu così che mi alzai, mi avvicinai e misi nelle sue mani i miei occhiali da vista. Non saprò mai cosa dissi e cosa lei rispose, ma ricordo la sua risata dolce e soffocata.
Camminai accanto a lei per tutta la mattina e dopo averla salutata, tornai dal signor Vincenzo. Lo abbracciai, presi il mio sassofono e la mia roba. Scesi dalla nave e pensai che non sapevo nemmeno il nome del posto dove ero sbarcato.
Non che mi importasse, ma se dovevo rimanere mi sembrava naturale doverlo sapere. Così cercai il modo per scoprirlo senza dover fermare qualcuno per strada. Ma non trovai nulla che mi aiutasse, e così raggiunsi la casa di Marta. La chiamai, si affacciò stupita alla finestra e le dissi: " Visto che debbo rimanere, posso sapere come si chiama questo posto?".
Immaginai risposte incredibili e romantiche, ma lei disse solo "Turbak".
Pensai che non era un buon nome, che sulle lettere non avrebbe fatto una gran bella figura, ma che mi dovevo adattare.
Nei miei ricordi non esiste altro di quel periodo, di come ci trovammo a dividere la nostra vita e di come decidemmo di trasferirci in un paese vicino sempre sulla costa. Qualcuno ci aveva detto che sarebbe diventato un porto turistico, che si poteva lavorare e far soldi con una pensione o con un negozio. Aprimmo una specie di bazaar, un posto dove potevi trovar tutto quello che avevi scordato a casa facendo le valigie.
Gli anni passarono, ma i turisti erano pochi. Il negozio continuava a fatica. Marta era sempre ottimista e io passavo il mio tempo a riordinare le merci o la cantina. Avevo un piccolo orto. Vennero due figli, due maschi e amai ancora di più Marta, che cresceva i bambini e accettava la nostra vita povera.
Dopo la scuola obbligatoria i ragazzi non vollero continuare gli studi. So che dissero alla madre che non avremmo potuto pagare gli studi e decisero di andare a lavorare. Con sgomento scoprii che volevano arruolarsi in Marina, che sarebbero partiti e che li avrei rivisti solo poche volte l'anno.
Facciamo i conti del tempo, tre anni con Marta e poi due figli con un anno di differenza. Ora uno ha 27anni e l'altro 26. Sono riuscito solo ad avvisare il primo, l'altro non so dove stia.
Sono sei anni che non li vedo, solo qualche lettera alla madre. Non ho mai parlato troppo con i miei figli, ma speravo in qualcosa di diverso.
Ho pensato in questi tre giorni che mi sarebbe piaciuto vedere che arrivavano e che mi abbracciavano. Che mi avrebbero perdonato chissà cosa, che non avrei pianto quando c'erano loro, che mi avrebbero chiesto di vedere le foto degli ultimi anni...
E mi tornano in mente i giorni passati al negozio con la rabbia che mi rodeva, con il ritmo delle dita sul vecchio sassofono immaginato davanti a me. La sera poche parole e qualche passeggiata nella piazza del paese, dove i benestanti ti salutavano a fatica, perchè ero il bottegaio, lo straniero che sorrideva a tutti dietro al bancone, ma al quale non si poteva dar troppa confidenza.
Mi ero convinto che non mi meritassero e che l'errore fosse stato fatto in partenza. Non vedevo così l'ora di vendere tutto e ritirarmi in giardino a guardar crescere l'erba.
Le ho fatte pesare eccome queste cose su mia moglie e sui miei figli. Lei non ha perso mai la voglia di amarmi, e io posso dire di non aver mai smesso di amarla come il primo giorno.
Anche ora che sento l'acqua salire alle mie gambe, toccar le ginocchia mentre cammino e perdo l'equilibrio sui sassi, mentre cerco anche io di sparire.

(il racconto Turbak è stato pubblicato nel 2008 nell'antologia "... Storie di carta" per le Edizioni Del Poggio)

3 commenti:

  1. Bob, ma nei tuoi racconti muore sempre qualcuno?

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  2. perché nella vita no?
    mi piace la cosa delle valige e del bazar
    la cosa del posto e del suo nome

    e sì okay
    anche la chiusura
    poi basta eh

    Ciao.

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  3. ciao, ho letto il tuo racconto...
    splendido.
    scrivi davvero bene, e sei tenero, sei sentimentale, sei romantico.
    e sei un pò triste.
    grazie

    Rita

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